Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle (Grenoble, 23 gennaio 1783 – Parigi, 23 marzo 1842), è stato uno scrittore e letterato francese.
Amante dell'arte e appassionato dell'Italia, dove visse a lungo, esordì in letteratura nel 1815 con le biografie su Haydn, Mozart, Metastasio e Gioachino Rossini seguite nel 1817 da una Storia della pittura in Italia e dal libro di ricordi e d'impressioni su Roma, Napoli, Firenze, di stampo romantico. Quest'ultimo fu firmato per la prima volta con lo pseudonimo di Stendhal, nome forse ispirato alla città tedesca di Stendal, dove nacque l'ammirato storico e critico d'arte Johann Joachim Winckelmann.
Celebrato per i romanzi Il rosso e il nero (1830), La Certosa di Parma (1839) e l'incompiuto Lucien Leuwen, capolavori scritti in una prosa essenziale ma vertiginosa, che ricerca la verità psicologica dei personaggi, ha lasciato una lunga teoria di testi e abbozzi inconclusi, testimonianza della quantità di progetti concepiti ma non realizzati[1]. Con Balzac, Dumas, Hugo, Flaubert, Proust,Maupassant e Zola, Stendhal è uno dei maggiori rappresentanti del romanzo francese del XIX secolo e anche uno dei primi e principali esponenti del realismo. I suoi protagonisti sono giovani romantici che aspirano alla felicità attraverso la realizzazione di sé, il desiderio della gloria e l'espansione di sentimenti d'amore appassionati.
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Henri Beyle nacque a Grenoble in una casa di rue des Vieux Jésuites, oggi al numero 14 di rue Jean-Jacques Rousseau, in una famiglia borghese. I suoi genitori si erano sposati il 20 febbraio del 1781: la madre, Henriette Gagnon (1757-1790) morì di parto[2] quando il figlio aveva sette anni, lasciando altre due figlie, Pauline (1786-1857) e Zénaïde (1788-1866). Donna allegra e colta - conosceva l'italiano e leggeva Dante in originale - era l'anima della casa e fu idealizzata da Henri, che invece detestò il padre Chérubin Beyle (1747-1819), procuratore e poi avvocato del Parlamento di Grenoble, massone, proprietario di una tenuta a Claix, appassionato di agricoltura, ma soprattutto inteso al guadagno e agli affari.
Come ricorda Stendhal, suo padre «era un uomo straordinariamente poco amabile, con la testa sempre piena di acquisti e vendite di proprietà, eccessivamente scaltro [...] non mi amava come individuo, ma come figlio che doveva continuare la sua famiglia [...] vedeva chiaramente che io non lo amavo affatto, non gli parlavo mai se non era strettamente necessario»[3]. D'altra parte aveva dovuto sistemare (maritare con dote o mettere in convento) ben dieci sorelle[4] e costruirsi da sé, con tipica ambizione del provinciale che aspira alla nobiltà. E poi la vedovanza certo non lo rallegrava.
Con la morte della madre, la famiglia troncò ogni rapporto mondano - con grande noia di Stendhal - vivendo in seguito sempre isolata. Anche il suo primo insegnante, un tale Joubert, «orribile pedante», morì poco dopo e Henri fu affidato a un precettore, segno, questo, di distinzione sociale, l'abbé Jean-François Raillane (1756-1840), «una vera canaglia [...] piccolo, magro, molto manierato, il colorito verdognolo, lo sguardo falso con un sorriso odioso [...] per scaltrezza, per educazione o per istinto di prete era nemico giurato della logica e di ogni retto ragionamento»[5]. La sua figura di gesuita non è chiarissima, probabilmente è anche un "ottimo educatore"[6], e tuttavia Stendhal ne aveva orrore: gli insegnò il sistema tolemaico pur sapendo che era falso, giustificandosi con il fatto che Tolomeo «spiega tutto e d'altronde è approvato dalla Chiesa»: una considerazione che fece dello scrittore «un empio forsennato e d'altra parte l'essere più cupo del mondo»[7].
Gran parte delle sue giornate Henri le passava nella vicina e ampia casa (in place Grenette) del nonno materno, il medico Henri Gagnon (1728-1813), dove abitavano anche la sorella di questi, la prozia Élizabeth (1721-1808), e la figlia Séraphie (1760-1797). A questa sorella minore sua madre aveva affidato, morendo, i tre figli e Henri la giudicò un «diavolo in gonnella», un'odiosa «matrigna», sospettando fosse amante del padre Chérubin, e tuttavia giudicata senza sesso, inacidita, isterica e bigotta, alla cui morte, il 9 gennaio 1797, lui, ateo, ringraziò «Dio in ginocchio». Opposta l'opinione che egli ebbe della prozia Élizabeth Gagnon, un'anziana nubile «alta, magra, asciutta, con una bella faccia italiana, carattere di una nobiltà assoluta, ma nobile con le raffinatezze e gli scrupoli di coscienza spagnoli»[8].
Un'alta stima Stendhal la riservò anche al nonno materno[9], Henri Gagnon, medico e illuminista, ammiratore di Voltaire e della buona letteratura classica: grazie a lui, sostiene Stendhal, non fu «intossicato» dagli scrittori contemporanei in voga a quel tempo, i «Marmontel, Dorat e altre canaglie»[10]. Gagnon era un'autorità a Grenoble per la sua vasta cultura, per la dottrina medica e la passione letteraria: conversatore brillante, teneva dissertazioni di fronte a un pubblico scelto, ma non aveva sensibilità artistica, a differenza della figlia Henriette, e si oppose a che il nipote avesse un'educazione musicale[11].
Anche il periodo rivoluzionario in corso in Francia sollecitò gli umori e le fantasie del piccolo Henri: già aveva assistito al preludio ribelle della famosa «giornata delle tegole»[12], e parteggiò subito per i rivoluzionari, figure che gli evocavano le virtù repubblicane conosciute nei libri di latino, contro il legittimismo bigotto del padre e dell'odiata zia Séraphie - la prozia Élizabeth e il nonno mantenevano un atteggiamento più cauto - i quali seguirono poi fremendo di angoscia le vicende del processo a Luigi XVI.
Quando il re venne decapitato, Henri esultò in silenzio, mentre il padre e la zia si disperavano. Chérubin Beyle, di cui erano note le idee monarchiche, finirà più volte in prigione: il 15 maggio 1793 per un mese, poi in agosto e ancora in novembre per sette mesi, mentre l'abbé Raillane, prete renitente, si diede alla macchia con grande soddisfazione di Henri, pieno di «ardenti slanci d'amor di patria e di odio» per preti e aristocratici.
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Il 21 novembre 1796 Henri entrò nell'appena inaugurata scuola pubblica secondaria di Grenoble, l'École centrale, oggi liceo Stendhal. Frequentava la scuola con soddisfazione benché nutrisse scarsa stima per la maggior parte dei suoi professori, perché era l'unico modo di sottrarsi al peso della famiglia e frequentare finalmente i propri coetanei. Tra i suoi compagni di studi, si legò di un'amicizia che durerà tutta la vita con Louis Crozet (1784-1858) e con Romain Colomb (1784-1858), suo lontano cugino. Il primo, che diventerà ingegnere, ispettore generale dell'amministrazione edilizia e anche sindaco di Grenoble, scriverà con Stendhal dei ritratti psicologici e riceverà in eredità i manoscritti dell'amico, mentre il secondo curerà la prima edizione delle opere di Stendhal.
Suoi insegnanti furono, per la grammatica, l'«abate civettuolo, tutto a modo, sempre in compagnia di donne»[13] Claude-Marie Gattel (1743-1812), autore di dizionari molto famosi all'epoca; per il latino, Joseph Durand (1745-1813), già suo precettore privato; il pittore Louis-Joseph Jay (1755-1836), «gran fanfarone senza un'ombra di talento, ma capace d'infiammare i ragazzi»[14], che insegnava disegno, storia dell'arte ed estetica; Pierre-Vincent Chalvet (1767-1807), «giovane povero e libertino»[14], per la storia; Jean-Gaspard Dubois (1737-1812), detto Dubois-Fontanelle, per la letteratura, autore di diversi drammi e tragedie, e poi giornalista della Gazette des Deux Ponts: il suo Cours de belles-lettres, pubblicato nel 1813, non pretendeva di insegnare a scrivere, ma a far apprendere il gusto delle belle lettere secondo la scuola di Voltaire.
Ma nell'École centrale la vera passione di Stendhal fu la matematica: affascinato da una scienza che garantiva l'esattezza assoluta delle sue affermazioni, escludendo per principio tutto ciò che è vago e impreciso, egli esigeva rigorose e chiare dimostrazioni che, a suo dire, il suo professore Dupuy de Bordes (1746-1814), già insegnante di Bonaparte alla Scuola di Artiglieria di Valence e «senza l'ombra di un'ombra di talento»[14] non era sempre in grado di fornire. Neanche la scuola privata di André-Laurent Chabert (1759-1823) si dimostrò migliore e allora Henri si fece pagare dalla prozia Élisabeth le lezioni impartitegli da Louis-Gabriel Gros (1765-1812), matematico e fervente giacobino di Grenoble, molto rispettato dall'esigente Henri. Vi era del resto un particolare motivo nell'impegno che il giovanissimo Stendhal prodigava per la matematica: egli contava di ottenervi il primo premio che gli avrebbe consentito di recarsi a Parigi per sostenere il concorso di ammissione all'École polytechnique, sottraendosi così a ogni tutela familiare.
Il suo primo amore, o piuttosto la prima fantasia di amore, fu riservata alla giovane attrice Virginie Kubly (1778-1835) che per qualche mese, dalla fine del 1797, a Grenoble recitò commedie e cantò «con la sua povera vocetta debole» nell'opéra comique: «tutte le cattive piccole opere del 1794 divennero sublimi per me grazie alla presenza di M.lle Kubly»[15]. Non le rivolse mai la parola, ma andava a rue des Clercs, dove abitava, sperando e insieme temendo di vederla.
Tra le sue letture impegnative, ma gradite, di quegli anni, a parte un'inevitabile concessione ai racconti licenziosi di La Fontaine e alla Félicia di Nerciat[16], vi erano Cervantes, Ariosto, Rousseau e, sopra tutti, Shakespeare, mentre Racine, «incessantemente lodato dai miei, mi faceva l'effetto di un ipocrita insulso»[17].
Finalmente, nel 1799, conclusi con buoni voti i corsi triennali e con il sospirato premio in matematica, nei primi giorni di novembre Henri salì senza rimpianti sulla vettura che l'avrebbe condotto nella capitale. Suo padre lo salutò piangendo: «la sola impressione che mi fecero le sue lacrime, fu che lo trovai molto brutto»[18], e durante il viaggio seppe del colpo di Stato con il quale Bonaparte si era impadronito del potere[19].
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Giunto a Parigi «con il fermo proposito di essere un seduttore»[20], la realtà s'incaricò di smentire le sue illusioni: nella grande città egli era solo un ragazzo sconosciuto che passava inosservato. Si presentò subito alla famiglia Daru in rue de Lille: Noël Daru (1729-1804), cugino di Henri Gagnon, era un alto funzionario della burocrazia francese, come il figlio Pierre (1767-1829), che era allora segretario generale del ministero della Guerra.
Perduto improvvisamente ogni interesse per gli studi di matematica, non si presentò nemmeno a sostenere l'esame di ammissione all'École polytechnique e trascorse in ozio alcuni mesi, finché nel febbraio del 1800 Pierre Daru gli fece ottenere un posto di impiegato d'ordine al ministero della Guerra, un lavoro che egli svolse tanto di malavoglia da decidere di arruolarsi nell'armata del Primo Console che era partita da qualche giorno per l'Italia. Il 7 maggio Stendhal lasciò Parigi: «ero assolutamente ebbro, pazzo di felicità e di gioia. Qui comincia un'epoca di entusiasmo e di felicità perfetta»[21].
Da solo, carico di libri, raggiunse prima Digione e il 18 maggio era a Ginevra, dove andò subito a visitare la casa natale di Rousseau e dove trovò un capitano che gli insegnò a stare a cavallo e i primi rudimenti sull'uso della sciabola. Con il capitano passò per Vevey e fu a Martigny, dove iniziava la lunga e allora impervia e pericolosa salita del Gran San Bernardo. Dopo sei ore di salita era finalmente in Italia.
Superate le cannonate sparate dal forte di Bard, che furono il suo battesimo del fuoco, apprese da un curato le prime parole d'italiano - donna e cattiva - e a Novara[22] andò ad ascoltare Il matrimonio segreto di Cimarosa, così che la delusione di Parigi non gli pesò più e la nostalgia delle montagne del Delfinato svanì di colpo: «vivere in Italia e ascoltare musica come quella divenne la base di tutti i miei ragionamenti»[23]. Finalmente, forse il 10 giugno, entrava a Milano.
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Proprio al suo ingresso in Milano incontrò Martial Daru (1774-1827), fratello di Pierre, che aveva già conosciuto a Parigi. Ispettore del ministero della Guerra, uomo «al di sotto della mediocrità ma buono e allegro»[24], questi ospitò subito Stendhal nella prestigiosa casa d'Adda[25], poi lo sistemò in una stanza di palazzo Bovara[26], allora sede dell'amministrazione militare francese diretta da Claude-Louis Pétiet (1749-1806), dove lavorò nell'ufficio del commissario Louis Joinville (1773-1849) e da dove venne introdotto nei salotti che contano, luogo di conversazioni galanti e di occasioni per stabilire relazioni amorose.
Ma Henri era orgoglioso e timido, e perciò nelle sale sfavillanti di donne belle ed eleganti e uomini esperti e disinvolti quel diciassettenne inibito si comportava goffamente e per reazione esagerava al contrario: si batté a duello con Alexandre Pétiet (1782-1835), il figlio del ministro, ricevendone una lieve ferita al piede, poiché geloso d'una certa signora Martin, e minacciò di sfida anche il suo capo ufficio Joinville per motivi non chiariti. Forse geloso dell'amante che lo stesso Joinville gli aveva presentato, quell'Angela Pietragrua nata Borrone (1777-...) che pure sarebbe stato facilissimo conquistare, della quale s'innamorò perdutamente senza però dichiararsi per dieci anni. Così avvenne che Henri perdette la propria «innocenza» in una casa di piacere, nel maggio del 1801, ricavandone oltre tutto una malattia venerea[27].
La Pietragrua, figlia di commercianti di stoffe che si arricchirono divenendo fornitori dell'esercito francese, e sorella di Giuseppina Borroni, un soprano famoso, era per Stendhal una «sublime sibilla, terribile nella sua bellezza folgorante e soprannaturale» e dispotica, capricciosa, istintiva, sarà ben rappresentata nel personaggio di Sanseverina ne La Certosa di Parma.
Fu il Daru a raccomandare Stendhal, facendogli ottenere subito il grado di sottotenente di un reparto di cavalleria nel settembre del 1800 e poi, il 23 ottobre, nel VI Reggimento dragoni, che egli raggiunse a Bagnolo, presso Brescia, il 22 novembre. Il 12 gennaio partecipò a Castelfranco Veneto allo scontro tra le forze del generale Michaud (1751-1835), comandante della III Divisione Cisalpina, e la retroguardia austriaca, che fu volta in fuga: il generale menzionerà anni dopo il suo «coraggio e la sua intrepidezza»[28]. Firmato l'armistizio il 16 gennaio 1801, il 1º febbraio Stendhal lasciò il reggimento per assumere la veste di aiutante di campo di Michaud.
La vita di aiutante di campo, almeno in tempo di pace, era piacevole: in primavera Henri, che dal 18 aprile aveva iniziato a tenere un diario, il suo Journal, soggiornò a Bergamo, in estate a Brescia, avendo tutto il tempo per studiare l'italiano e il clarinetto, progettare commedie e andare a teatro. Ma durò poco: per avere l'onore di essere aiutante di un generale bisogna aver combattuto due campagne militari e così, reclamato dal suo reggimento, Stendhal dovette raggiungere il VI Dragoni in Piemonte, seguendolo nei suoi spostamenti in piccole città, Bra, Saluzzo, Savigliano, con i disagi delle manovre e il disgusto delle corvées. Era troppo per Stendhal, che a dicembre ottenne un congedo e tornò a Grenoble.
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Ritornato brevemente a vivere nella sua casa natale, Henri trovò nella sorella Pauline un'amica e una confidente. Del resto anche questa figlia del secolo, che amava leggere Ossian e Shakespeare, si sentiva oppressa dall'aridità paterna e, diversamente dal fratello e come tante ragazze nella sua condizione, cercherà solo nel matrimonio l'evasione da una condizione infelice: «sposatasi con un uomo sciocco e docile», riuscirà con gli anni a essere sé stessa[29].
Da parte sua, a Grenoble Henri trovò in Victorine Mounier (1783-1822) un nuovo, tipico suo amore di fantasia: ascoltatala suonare Haydn al pianoforte, se ne innamorò senza forse nemmeno mai parlarle e, una volta che i Mounier si trasferirono a Rennes, per due anni scriverà di sé al fratello di Victorine sperando che lei, leggendo le sue lettere, s'innamorasse a sua volta.
Il 15 aprile 1802 Henri era già a Parigi (in questo periodo abitò in rue d'Angiviller), mantenuto con una pensione mensile di circa 200 franchi dal padre, il quale sperava che il figlio lasciasse la vita militare per una professione «seria e rispettabile». In effetti Stendhal lasciò l'esercito in luglio, ma non si curò di trovarsi un lavoro: preferiva studiare l'inglese, andare a teatro, prendere appunti e citare le sue letture sul diario. A Parigi, inoltre, frequentò Magdaleine Paul, di quarantaquattro anni, sposata a un lontano cugino, Jean-Baptiste Rebuffel (1738-1804), e la figlia quattordicenne Adèle (1788-1861): corteggiò la figlia, ma finì a letto con la madre. Sconcertando Henri, entrambe provarono un'aperta soddisfazione alla morte di Jean-Baptiste, che del resto aveva una manifesta relazione con una sua socia in affari. Adèle sposerà nel 1808 proprio quell'Alexandre Pétiet che a Milano si era battuto a duello con Stendhal.
Henri era ancora repubblicano e il suo eroe non era Bonaparte, alla cui incoronazione assistette con sarcasmo e disgusto[30], ma il generale Moreau, fatto processare da Napoleone, in favore del quale scrisse un pamphlet. Lesse Alfieri e in Amleto vide un nemico dei tiranni, assistette con commozione al Philinte de Molière di Fabre d'Églantine e si entusiasmò per l'Idéologie di Destutt de Tracy. Credeva che la verità potesse unire gli uomini, che con la sola purezza del cuore e con l'ispirazione del genio si potessero comunicare idee folgoranti. Poi si convinse che scrivere è riflessione faticosa, lavorìo continuo, indagine lenta e sistematica, e lesse e analizzò nel suo Journal littéraire Besenval, Brissot, Cabanis, Chamfort, Chateaubriand, Duclos, Helvétius, Hobbes, Pinel, Retz, Say, Saint-Simon, Adam Smith, Madame de Staël, Vauvenargues.
Iniziò i primi tentativi letterari e, da appassionato di teatro, tra il 1803 e l'estate del 1804 scrisse due testi in versi, Les deux hommes, commedia illuminista dove egli contrappose l'educazione mondana all'educazione secondo ragione, e Letellier, nome del gesuita confessore di Luigi XIV, una satira dell'ipocrisia. Cattivo verseggiatore, Stendhal le lasciò incompiute. Mise insieme anche un Catéchisme d'un roué[31], una serie di definizioni e ritratti di donne tratti dalla letteratura libertina del secolo precedente: l'iniziativa rientrava nel suo eterno progetto d'essere un seduttore e di trionfare sulla timidezza che lo attanagliava, di soddisfare la propria vanità e il suo amore dell'amore. Inoltre, Henri sapeva di essere brutto: i suoi lineamenti erano grossolani, il collo s'infossava sulle spalle, era grasso, presto perse i capelli e mascherò la calvizie con un parrucchino, e benché non fosse basso, appariva tozzo, con la sua vita larga e le gambe corte e sottili. E allora curò il suo aspetto con ossessivo puntiglio e s'indebitò con il sarto. L'eleganza doveva mascherare la bruttezza, come il cinismo del dandy doveva coprire la sensibilità del romantico.
Per stare più a suo agio sulla scena della società e per amore del teatro, Henri prese lezioni di recitazione. Il 21 agosto 1804 s'iscrisse insieme con Martial Daru alla scuola di Jean Mauduit, detto La Rive (1747-1827), vecchio e ormai démodé attore tragico, poi a quella del più economico Jean-Henri Gourgaud, detto Dugazon (1746-1809), travolgente attore comico ammiratissimo da Stendhal. Qui conobbe l'aspirante attrice Mélanie Guilbert, o Mademoiselle Louason (1780-1828), se ne innamorò e fu ricambiato.
Mélanie, divorziata da un diplomatico prussiano, era venuta a Parigi da Caen per partorire una bambina, Henriette, frutto di una relazione occasionale. Con poche risorse, voleva essere attrice per vivere ed essere indipendente: era bella, bionda, con due occhi blu ora severi, ora teneri, «pieni di quella malinconia immensa e ferita che per Stendhal è il segno dell'anima e il richiamo dell'amore»[32]. Decisero di vivere insieme e poiché Mélanie aveva ottenuto una scrittura a Marsiglia, l'8 maggio 1805 Stendhal l'accompagnò fino a Lione; poi andò a Grenoble per convincere il padre, suggerendo velatamente che Henriette potesse essere figlia propria, a finanziargli il suo progetto di aprire una banca a Marsiglia. Non ottenendo nulla, ripiegò su un impiego presso Charles Meunier, un esportatore marsigliese di prodotti di drogheria. Per quasi un anno Henri e Mélanie vissero come marito e moglie; poi il teatro fallì e il 1º marzo 1806 Mélanie tornò a Parigi in cerca di nuove scritture: con la lontananza la passione svanì.
Mentre finiva l'amore per Mélanie e rimanevano miseri i guadagni da droghiere, la Francia era divenuta il paese più potente d'Europa e Napoleone aveva bisogno, oltre che d'un esercito invincibile, anche di una corte e di una burocrazia adeguata alle sue mire di dominio europeo. Per questo creò, nel 1803, la figura dell'«uditore», che sembrava fatta apposta per Henri: si trattava di giovani che facevano un tirocinio nell'amministrazione pubblica e frequentavano la corte e i salotti che contavano, dove si faceva mostra di belle maniere e si discuteva di politica. Un po' cortigiani e un po' burocrati, acquisivano così la cultura politica e il senso del nuovo Stato imperiale.
Stendhal era entusiasta, e il 31 maggio tornò a Grenoble, dove la famiglia si attivò presso i Daru, che in verità erano rimasti delusi del comportamento passato di Henri. Quindi il 10 luglio si stabilì a Parigi, il 3 agosto entrò nella massoneria, introdotto da suo cugino Martial Daru, nella Loggia parigina "Sainte-Caroline"[33], e riprese le relazioni con i cugini, finché Martial Daru cedette e lo prese con sé: il 16 ottobre 1806, due giorni dopo la battaglia di Jena, partivano per la Germania, al seguito della Grande Armée impegnata in una nuova campagna di guerra.
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Il 27 ottobre Stendhal vide Napoleone entrare vincitore a Berlino, dove Martial Daru lo nominò collaboratore dei commissari di guerra, e il 3 novembre si trasferirono entrambi a Brunswick, la capitale dell'ex ducato annesso al Regno di Vestfalia di Girolamo Bonaparte, di cui Daru era intendente. Stendhal divenne commissario di guerra: con una paga di 200 franchi al mese e due segretari al suo servizio, si occupava di approvvigionamenti, di logistica, di sanità, della riscossione delle imposte; redigeva rapporti, rendiconti, eseguiva controlli e scriveva un'infinità di lettere d'ufficio. Ma c'era anche il tempo dello svago: prese in prestito libri della biblioteca di Wolfenbüttel, dalla quale ne dovette far requisire 400 per conto della Bibliothèque imperiale di Parigi, andava a caccia, frequentava la vecchia corte, viaggiava. E fu in questo periodo che scoprì Mozart.
Ma naturalmente al centro del suo interesse vi erano anche le donne. Nell'aprile del 1807 Stendhal s'innamorò di Wilhelmine von Griesheim, figlia di un generale: era già fidanzata, ma Henri le dichiarò egualmente il suo amore; lei sembrava esitare, ma alla fine nulla successe e del resto i Griesheim, oppositori del nuovo regime, furono mandati in esilio alla fine dell'anno da re Girolamo.
Con la partenza di Martial da Brunswick all'inizio del 1808, l'altro cugino Pierre Daru, che era intendente generale dell'Impero, promosse Henri intendente dei possedimenti imperiali del dipartimento dell'Ocker. Cercava di mantenere, nel disbrigo delle sue funzioni, un tono di disinvolta leggerezza: «Amministro come vado a caccia, per il piacere del successo», scrisse a maggio nel suo Journal, e ancor più disinvolta era l'amministrazione delle sue finanze, tanto da dover più volte chiedere denaro al padre. Cominciò a non poterne più di Brunswick e finalmente l'11 novembre venne richiamato a Parigi, dove trovò la sorella Pauline sposata (dal 25 maggio) con François Périer-Lagrange, imprenditore di tessuti per vele, ma infelice nel suo matrimonio di «convenienza»: i due fratelli si allontaneranno, sostituendo alla complicità un rapporto corretto ma superficiale[34].
Anno nuovo e nuova campagna di guerra: il 28 marzo 1809 Stendhal ricevette l'ordine di riunirsi a Strasburgo con i commissari di guerra al seguito della Grande Armée, che avanzava contro il vecchio Impero austriaco. Impegnato nel caotico disordine delle retrovie a portare dispacci nel fango e nella polvere, non vide nemmeno le battaglie di Essling e di Wagram, ma assistette allo scontro di Ebersberg, dove di fronte alle tragedie di quelle scene sanguinose poté mantenere tanto un'ammirevole freddezza quanto essere scosso fino all'orrore[35].
Il 13 maggio entrò a Vienna, con la stessa emozione con la quale era entrato a Milano. «Lavoro giorno e notte, e il resto del tempo cavallo, ragazze e musica», scrisse sul Journal: la musica era naturalmente quella del «divino Mozart», che Henri poneva alla pari di Cimarosa, ma anche quella di Haydn, che morì alla fine del mese (il 15 giugno Stendhal assistette al Requiem in suo onore). Ma a Vienna aleggiava «odore di femmina», e Stendhal si trovò un'amante in Babet Rothe, un'attrice e cantante che egli possedette in un padiglione abbandonato del Prater e per la quale per poco non si batté a duello con un maggiore d'artiglieria, Jean-Baptiste Raindre (1779-1858). In ottobre venne a stabilirsi a Vienna, per un mese, Alexandrine Daru (1783-1815), moglie del suo protettore Pierre, che l'affidò a Henri perché le facesse da guida nella grande città: nacque in Stendhal, per quella donna giovane ma già madre di cinque figli, un amore muto - o un'attrazione - che a volte gli sembrava ricambiato, ma che egli non riuscì e non poté esprimere nel timore dell'equivoco o di osare troppo. È la condizione vissuta da Julien Sorel, il protagonista de Il rosso e il nero, durante i suoi primi rapporti con Madame de Rênal.
Finita la campagna d'Austria, il 20 gennaio 1810 Stendhal tornò a Parigi, dove il 1º agosto ricevette la sospirata nomina a uditore. Poiché anche nell'Impero le cariche si ottenevano in base al censo, il padre Chérubin dovette assicurare al figlio una rendita annua di 6 000 franchi. Il 22 agosto Henri venne nominato Ispettore del Mobilio e degli Edifici della Corona, carica che gli assicurava uno stipendio di 6 000 franchi annui che, uniti ai 2 000 franchi di uditore e ai 900 garantiti dalla sua funzione di commissario di guerra, facevano 8 900 franchi, poco per le spese a cui era abituato e che aumentavano a motivo delle esigenze imposte dalle sue cariche: quell'anno Henri accumulò debiti per 12 500 franchi, che saliranno a 36 000 nel 1815.
La sua amante del momento era Angéline Bereyter (1786-1841), cantante d'operetta, che Henri chiamava all'italiana "angioletto", una donna sempre disponibile che si fece mantenere da Stendhal fino al 1814 senza avanzare mai troppe pretese. Andava ogni sera a casa di Henri ma, non sollecitando la sua fantasia, non sarà mai amata: l'amore platonico restava riservato alla Daru. Il 31 maggio 1811 decise di rischiare e, sotto un pioppo del giardino di lei, le si dichiarò. Per fuggire alla sconfitta del rifiuto di lei, il 29 agosto, con il permesso di Pierre Daru che aveva apprezzato il suo lavoro, Stendhal poté prendersi una vacanza, lasciarsi alle spalle i suoi ultimi dieci anni e ritornare sui propri passi, riconoscendo sé stesso nel proprio passato: naturalmente la sua meta fu l'Italia.
Il 7 settembre giunse a Milano e già la sera stessa andò alla Scala. Il giorno dopo si presentò dalla Pietragrua, deciso a farla sua. Bandita la timidezza, il 12 settembre si dichiarò e in risposta ricevette la domanda: «Perché non me lo diceste allora?» Ottenuta la sospirata vittoria, Stendhal poté continuare il suo viaggio italiano, nel quale si spinse fino a Pompei. Cercò di capire e amare la pittura, per la quale non aveva la stessa facilità provata per la musica. A Firenze scoprì di avere un proprio gusto - forse discutibile - ma ciò che gli importava era vedere e amare ciò che guardava. Si fermò a Roma dal 30 settembre al 3 ottobre, dove Martial Daru gli presentò Canova e dove fu emozionato dal canto degli uccelli sulle rovine antiche, poi fu a Napoli, a Pompei, e risalì ancora a Roma fino, il 17 ottobre, ad Ancona, per incontrare una certa Livia conosciuta a Brunswick. Il 22 ottobre Stendhal faceva ritorno a Milano, con l'idea di scrivere una storia della pittura, soprattutto al fine di comprendere meglio quell'arte: si procurò allora le Vite del Vasari, la Storia pittorica del Lanzi, il saggio, appena uscito, di Giuseppe Bossi sul Cenacolo di Leonardo. Ma era tempo di tornare in patria e il 13 novembre Stendhal lasciò Milano.
A Parigi, distaccato negli uffici della sezione di Guerra, mentre dava inizio alla sua Histoire de la peinture, attingendo a piene mani al Lanzi, e a una Vita di Cimarosa sopra un dizionario dei musicisti, riprese abitudini e ambizioni: brigò per ottenere una nomina a barone e, poiché partecipare a una campagna di guerra procurava avanzamenti di carriera, chiese di partire per la Russia. Il 23 luglio 1812, quando già la Grande Armée avanzava nelle steppe russe, Stendhal partì da Parigi e il 14 agosto raggiunse il Quartier generale francese a Bojarinkova, presso Krasnyj. Il 9 settembre assistette alla battaglia della Moscova e il 14 era a Mosca.
Qui vide l'avanzare dell'incendio, i saccheggi, il disordine, le miserie di uomini che fino al giorno prima costituivano l'esercito più potente del mondo e il crollo del mito dell'invincibilità di Napoleone, che egli poté osservare al Cremlino, e dei suoi generali, tormentati dalla dissenteria. Henri, a quanto racconta, mantenne il controllo di sé stesso, pur nel freddo, nella fame e nella stanchezza. Il 15 ottobre Stendhal venne nominato direttore generale degli approvvigionamenti di Smolensk, dove l'esercito doveva sostare durante la ritirata. Nel viaggio, la sua scorta composta di un centinaio di soldati venne assalita dai cosacchi ma si difese, e tuttavia lui perse il manoscritto dell'Histoire de la peinture. Il 2 novembre era a Smolensk, poi, sempre anticipando i resti dell'Armée in ritirata, proseguì la sua missione a Orša, a Bóbr, a Toločin: superò la Beresina il 27 novembre, un giorno prima che i suoi ponti venissero distrutti dai russi. Il 4 dicembre rischiò la vita in un assalto di cosacchi a Моlodečno, il 7 era a Vilna e il 14 fu finalmente in salvo a Königsberg. Naturalmente, nella città prussiana, non si perse la recita della Clemenza di Tito. Poi, con calma, attraversò la Germania e il 31 gennaio 1813 si ritrovò a Parigi.
A ricompensa dei suoi servigi sperava di ottenere una promozione con un incarico di prestigio, del tipo di una prefettura, ma invano. Così, dal 25 aprile, fu nuovamente al seguito dell'esercito che ora affrontava la coalizione russo-prussiana: annoterà di «essere annoiato e disgustato di tutto; l'Imperatore mi sembrava pazzo». All'armistizio seguito alle battaglie di Lützen e di Bautzen venne nominato intendente a Żagań, dove si ammalò il 6 luglio e, in pericolo di vita, fu rimandato a Dresda febbricitante, dove ottenne una licenza per curarsi a Parigi e da qui partì ancora per l'Italia: Milano, il lago di Como, Venezia e naturalmente la musica della Scala e Angela Pietragrua (riprese anche da capo l'Histoire de la peinture).
La stella di Napoleone, sconfitto a Lipsia, volgeva al tramonto. Gli austriaci avanzavano in Italia e Stendhal, tornato a Parigi, a dicembre si vide affidato il compito di affiancare il conte Jean de Saint-Vallier (1756-1824) nella difesa del Delfinato, la sua regione. Chambéry venne perduta e riconquistata, ma non era quello un fronte di guerra importante. La coalizione antinapoleonica puntava su Parigi, e il 14 marzo 1814 Stendhal vi si diresse: a Thuellin, sul caminetto d'una locanda, incise la sigla «MTF», come dire «Mane Fares Thecel», ma anche Je m'en fous de tout[36]. Il 29 marzo vide l'ultima resistenza francese a Montmartre e tentò di nascondere per salvarli alcuni quadri del Louvre, poi vide l'ingresso a Parigi degli alleati e, con loro, dei Borboni.
Con il restaurato regime monarchico, essendo i Daru momentaneamente in disgrazia, gli occorreva trovare nuovi protettori per salvare titoli e posizione, e allora Stendhal si rivolse a Jacques-Claude Beugnot (1761-1835), il ministro dell'interno del governo provvisorio, che lo raccomandò a Talleyrand. Non avendo ottenuti risultati, cercò un diversivo, immergendosi nei suoi interessi, e in un mese scrisse le Lettres écrites de Vienne en Autriche sur le célèbre compositeur J. Haydn, suivies d'une vie de Mozart, et de considérations sur Métastase et l'état présent de la musique en France et en Italie, un semplice adattamento e traduzione de Le Haydine di Giuseppe Carpani, pubblicato due anni prima. Le firmò «Louis-Alexandre-César Bombet», che rappresentava insieme un'allusione al nuovo regnante, allo zar e a Bonaparte. Sentì che compromettersi con il nuovo regime sarebbe stata una ferita insopportabile per il proprio ego: meglio lasciare tutto e tornare là dove la sua vera vita era cominciata, al suo eterno punto di partenza[37]. Il 20 luglio Stendhal lasciò Parigi e il 10 agosto era ancora una volta a Milano.
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In realtà i francesi non erano più ben visti a Milano: in aprile Giuseppe Prina, l'ex ministro del governo di Eugenio di Beauharnais, era stato linciato da una folla sobillata dall'aristocrazia milanese, desiderosa di ingraziarsi i nuovi padroni e di farsi diminuire le tasse. Anche i rapporti con Angela Pietragrua, mai facili, si deteriorarono e lei arrivò al punto di minacciare di denunciarlo alla polizia. Avuta la prova, da una cameriera infedele della Pietragrua, dei suoi numerosi amanti, nel dicembre del 1815 la relazione finì bruscamente, lasciandogli una scia di depressione dalla quale cercò di uscire ripiegando nella scrittura.
Ripresi i suoi appunti e mantenuti i contatti con l'amico Crozet, che faceva l'ingegnere a Plancy ma si assumeva anche la funzione di suo agente letterario, per un anno Henri lavorò alla sua Histoire de la peinture, che terminò nel febbraio del 1817 a Napoli, non andando volontariamente oltre la trattazione della scuola fiorentina. Il libro apparve il 2 agosto, a firma di M.B.A.A. - Monsieur Beyle Ancien Auditeur - per i tipi dell'editore parigino Didot. Il mese dopo, il 13 settembre, usciva anche Rome, Florence et Naples, en 1817, sotto il nom de plume di «Monsieur de Stendhal, Officier de Cavalerie». Nel frattempo però, con il nome di Louis-Alexandre-César Bombet, uscirono le Lettres écrites de Vienne en Autriche sur le célèbre compositeur J. Haydn, suivies d'une Vie et de considérations sur Métastase et l'état présent de la musique en France et en Italie (1815), subito accusato di plagio dal musicologo italiano Giuseppe Carpani e difeso dal Crozet, improvvisatosi fratello di Bombet.
Durante un breve viaggio tra aprile e giugno a Grenoble, fatto per questioni economiche legate alla famiglia (tra l'altro Pauline era rimasta vedova e povera, e Zénaïde, l'altra sorella, si era sposata portando con sé una grande dote), ci fu un'insurrezione e il padre, divenuto sindaco, nonostante non mancasse di reagire con dura repressione, venne accusato di debolezza. Stendhal, sempre pieno di debiti e in rotta con lui, lasciò il paese natale deciso a «diventare» italiano.
Tornato a Milano, un giovane avvocato piemontese, Carlo Guasco, lo presentò nel luglio del 1816 a Ludovico di Breme, che lo introdusse nel circolo degli intellettuali romantici e, in varia misura, liberali, che intorno a lui si raccoglievano, il Pellico, il Berchet, Pietro Borsieri, oltre a lord Henry Brougham (1778-1868), che gli fece conoscere la Edinburg Review, una delle riviste britanniche la cui modernità e indipendenza di giudizio erano sconosciute nel resto dell'Europa, attraverso la quale conobbe alcune delle opere di Byron. Conobbe in ottobre lo stesso celebre poeta, un dandy circondato da un'aura di scandalo, espressione vivente, per Stendhal, del Romanticismo: fu un incontro piacevole, durante il quale Byron si mostrò molto interessato alle avventure «napoleoniche» di Stendhal.
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Nel 1817-1818 lavorò alacremente a una Vita di Napoleone. L'autore non pubblicò mai il testo, non solo per comprensibili motivi di prudenza politica nel momento della Restaurazione, ma anche perché non fu mai rifinita, al punto da apparire più come una serie di appunti, anziché un'opera completa.
Era stata scritta soprattutto in risposta alle critiche avanzate da Madame de Staël, nel suo Riflessioni sulla Rivoluzione francese, ma Stendhal, che pure riteneva Napoleone superiore persino a Cesare, non esitò a sollevare nei confronti di Napoleone critiche addirittura di senso opposto.
Il quadro che ne uscì era completamente diverso da quello atteso. Stendhal fa dei protagonisti dei suoi romanzi dei ferventi bonapartisti: lo sono sia Julien Sorel sia Fabrizio del Dongo. Ma in contrapposizione all'accusa corrente durante la restaurazione di un Napoleone despota sanguinario responsabile delle guerre del primo quindicennio del secolo XIX, Stendhal non compose un'apologia, ma elaborò uno studio condotto con rigore storico. Se mosse grandi rimproveri all'imperatore, furono di segno opposto: di non aver colto l'occasione di cambiare il mondo e di aver agito, a volte, senza il coraggio di osare, e di essere più attaccato alla vanità che alla gloria.
L'edizione del testo,[38] insieme con quella di un'opera sullo stesso soggetto, di vent'anni posteriore[39] fu curata da un amico di Stendhal: Romain Colomb in una versione con molti troncamenti e omissioni e solo in tempi molto successivi furono recuperati da una edizione critica.
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Il 1818 fu anche l'anno dell'incontro con Metilde Viscontini Dembowski, da lui chiamata Métilde, della quale fu infelicemente innamorato. Metilde, separata da un marito violento, il generale polacco Jan Dembowski, non gli riservò altro che la propria amicizia: aveva forse un altro amante, ma soprattutto pensava ai propri due figli, affidati all'ex marito. Stendhal la seguì più volte di nascosto nei suoi spostamenti fuori Milano: a Desio, il 14 aprile del 1819, il 5 giugno a Volterra, dove lei era in visita ai suoi figli. A luglio Stendhal era a Bologna, aspettando invano una sua lettera, quando ricevette la notizia della morte del padre, avvenuta il 10 giugno. Non ne fu addolorato e in agosto tornò a Grenoble sognando per un momento di ereditare improbabili ricchezze, ma i debiti e le ipoteche accumulate da Chérubin Beyle costrinsero Henry e le sorelle a vendere gran parte delle proprietà.
Il 22 ottobre Stendhal ritornò a Milano, trovando una Metilde che, incollerita per la sua assiduità e le sue dichiarazioni d'amore, gli impose di diradare le sue visite. Egli capiva che il suo amore «viveva solo di immaginazione», ma non poteva fare a meno di cercarla, e a dicembre venne letteralmente messo alla porta. Passava sotto la sua casa, guardava le sue finestre sperando di vederla: in una notte del maggio del 1820 la intravide in casa con il conte Pecchio e si rose di gelosia.
Aveva intanto iniziato a scrivere il De l'Amour, un vecchio progetto che ora era anche un modo per mettere a nudo il suo cuore, giustificare le proprie sconfitte e il proprio comportamento nelle vicende dell'eros, oltre che una sorta di ars amandi del Romanticismo. L'amore è desiderio, e il desiderio ha per oggetto la bellezza: così l'amante è anche artista, e si ama e si apprezza il bello guardandolo a distanza, come un quadro, un paesaggio e anche una donna amata. E poiché il desiderio si nutre di immaginazione, che è una presa di distanza dalla realtà, l'avventura con Metilde diventò nella fantasia di Stendhal, da una passione non ricambiata, quale realmente fu, un amore che Metilde non poté ricambiare perché ella amava troppo Stendhal.
Per la pubblicazione del libro si rivolse all'amico parigino Adolphe de Mareste (1784-1867), al quale annunciò il 1º aprile del 1821 di aver deciso di lasciare Milano per raggiungere la Francia. Aveva assistito allo sviluppo della Carboneria, alla quale anche Metilde aderiva, ma aveva rifiutato di farne parte, pur condividendone i progetti politici. Sapeva che gli austriaci avrebbero facilmente soffocato il movimento e imposto alla Lombardia un regime più repressivo del vigente dispotismo illuminato. Nel suo giudizio, la Milano spensierata delle serate musicali alla Scala, amante del buon vivere, illuminista e scettica, si stava mutando in una città della Restaurazione, cospirativa e controllata dalla polizia politica: «Senza i torbidi e la carboneria non sarei mai rientrato in Francia», scriverà anni dopo[40]. Il 7 giugno fece visita per l'ultima volta a Metilde e il 21 giugno raggiunse Parigi.