Cechov Anton

Anton Pavlovič Čechov (in russo Антон Павлович Чехов?AFI[ɐnˈton ˈpavɫəvʲɪt͡ɕ ˈt͡ɕexəf] ascoltaTaganrog29 gennaio 1860[1] – Badenweiler15 luglio 1904[1]) è stato uno scrittore e drammaturgo russo, tra i maggiori autori letterari e teatrali europei del XIX secolo.

Biografia

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Infanzia e adolescenza

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Terzo di sei figli,[2] Anton nacque in una famiglia di umili origini: il nonno, Egor Michajlovič Čech, servo della gleba e amministratore di uno zuccherificio del conte Čertkov, era riuscito a riscattare se stesso e la propria famiglia nel 1841 grazie al versamento al proprio padrone di una grossa somma di denaro, 3 500 rubli[3]. Il padre, Pavel Egorovič, fervente religioso ma violento, picchiava spesso i figli: «Mio padre cominciò a educarmi, o più semplicemente a picchiarmi, quando non avevo ancora cinque anni. Ogni mattina, al risveglio, il primo pensiero era: oggi sarò picchiato?»[4] I figli erano costretti a rimanere per ore al freddo della drogheria del padre, e inoltre a seguirlo nelle attività religiose, tra cui il coro da lui diretto.

Più tardi Čechov scriverà a un amico: «Sono stato allevato nella religione, ho cantato nel coro, ho letto gli Apostoli e i salmi in chiesa, ho assistito regolarmente ai mattutini, ho persino aiutato a servir messa e ho suonato le campane. E qual è il risultato di tutto ciò? Non ho avuto infanzia. E non ho più alcun sentimento religioso. L'infanzia per i miei fratelli e per me è stata un'autentica sofferenza». La madre, Evgenija Jakovlevna Morozova, proveniva da una famiglia di commercianti, anch'essi già servi della gleba. Donna gentile e affettuosa con i figli, veniva maltrattata anche lei dal marito: «Nostro padre faceva una scenata durante la cena per una minestra troppo salata, o dava dell'imbecille a nostra madre. Il dispotismo è tre volte criminale».[5] Anton amava questa donna mite e silenziosa: «Per me non esiste nulla di più caro di mia madre in questo mondo pieno di cattiveria».[6]

I Čechov nel 1874: Anton è il secondo in piedi a sinistra. A destra, uno zio con la moglie e il figlio.

Del resto, quella era l'unica educazione che Pavel Egorovič conoscesse e probabilmente la riteneva la migliore possibile: «Nostro nonno era stato picchiato dai signori, e l'ultimo dei funzionari poteva fare lo stesso. Nostro padre è stato picchiato da nostro nonno, noi da nostro padre. Che animo, che sangue abbiamo ereditato? […] Il dispotismo e la menzogna hanno guastato a tal punto la nostra infanzia che non posso ripensarvi senza terrore e disgusto».[5]

Nemmeno di Taganrog, sua città natale, e dei suoi abitanti Anton ebbe mai un'opinione favorevole: «Si mangiava male, si beveva acqua inquinata […] In tutta la città non conoscevo un solo uomo onesto» - scrisse nei suoi ricordi - «Sessantamila abitanti si preoccupano soltanto di mangiare, di bere, di riprodursi e non hanno alcun interesse nella vita […] non ci sono né patrioti, né uomini d'affari, né poeti»,[7] e la città è «sporca, insignificante, pigra, ignorante e noiosa. Non vi è neppure un'insegna che sia priva di errori d'ortografia. Le vie sono deserte […] la pigrizia è generale».[8]

Questa città aveva goduto di tempi migliori prima che il porto affacciato sul mar d'Azov, fatto costruire da Pietro il Grande, a metà dell'Ottocento si insabbiasse e che gli scali dei trasporti fossero dirottati a Rostov sul Don. A Taganrog si era da tempo stabilita una numerosa colonia di emigrati greci, che si erano dedicati al commercio fino a controllare tutta l'esportazione dei prodotti agricoli.

Il ginnasio di Taganrog in una cartolina d'epoca

Il padre era proprietario di una modesta drogheria dove si vendeva di tutto e si mesceva vino e vodka ad avventori che s'intrattenevano nel locale fino a notte inoltrata. Nel 1867 mandò i figli Anton e Nikolaj a studiare proprio nella scuola greca, contando di introdurli un giorno, grazie alla conoscenza di quella lingua e di quegli agiati mercanti, nel facoltoso ambiente del commercio cittadino.

I risultati si rivelarono tuttavia disastrosi per i due ragazzi, che non riuscirono a inserirsi in questa scuola. Era composta di una sola aula nella quale venivano riuniti tutti gli allievi di diverso grado e un unico maestro insegnava tutte le materie in greco, lingua sconosciuta ai due Čechov: perciò l'anno dopo, il 23 agosto 1868, Anton entrò nel ginnasio russo di Taganrog.

La qualità del corpo insegnante era adeguata all'immagine di quel ginnasio, simile a una caserma: l'insegnante di storia usava abitualmente un linguaggio volgare, quello di latino era un confidente della polizia. Čechov si ricorderà di loro nel suo noto racconto L'uomo nell'astuccio: «Siete voi dei professori, dei pedagoghi? No, siete dei miserabili funzionari e il vostro tempio del sapere è un commissariato di polizia; del resto ne ha l'odore». Un'eccezione era rappresentata dall'insegnante di religione, che consigliò ad Anton, avendone notato l'ironia e la disposizione ai racconti umoristici, la lettura di classici della satira, come Molière e Swift, e il moderno Saltykov-Ščedrin[9]. Fu lui a dargli quel soprannome di Cechontè col quale Anton firmò i primi racconti.

Il teatro di Taganrog, ora intitolato a Čechov

Anche al ginnasio il profitto di Anton era modesto. Del resto, quello dello studio non era il suo impegno esclusivo; spesso doveva aiutare o sostituire il padre nella drogheria; tutte le domeniche e i giorni festivi doveva cantare nel coro della chiesa; il padre gli fece impartire lezioni di francese e poi, per più pratici scopi, lo costrinse a seguire un corso di taglio e cucito. I suoi svaghi consistevano nelle passeggiate in città, nelle corse nel parco, nella pesca alla lenza e, in estate, nella visita al nonno paterno, che veniva raggiunto con un lungo viaggio di due giorni su un lento carro attraverso la sterminata pianura russa fino al villaggio di Kniajaja, nel Donec. Certamente Čechov si avvarrà di queste esperienze quando scriverà La steppa, uno dei suoi racconti più noti.

Nel 1873, poi, ci fu la grande scoperta del teatro. Fu lo spettacolo de La bella Elena di Offenbach a dargli la prima ma definitiva impressione che lo portò a interessarsi all'arte della recitazione e al gusto di una finzione che è anche realtà. Seguirono Amleto e Gogol'Griboedov e il melodramma, la farsa e la commedia, e soprattutto il desiderio di imitare il lavoro degli attori. Con i fratelli e la sorella Marija formò una piccola compagnia che si esibiva in casa di fronte a parenti e amici e, quando non riproduceva le pièces di successo, Anton cominciò a improvvisare i primi canovacci. Seguì per qualche tempo la redazione manoscritta di un giornalino mensile, Il tartaglione, che faceva circolare anche tra i compagni di scuola e dove descriveva con umorismo fatti e scene della vita quotidiana della città.

Il teatro Bol'šoj di Mosca

Arrivarono in casa Čechov problemi familiari ed economici: nel 1875 Aleksandr e Nikolaj, stanchi delle prepotenze paterne, lasciarono la famiglia e se ne andarono a Mosca a studiare; Nikolaj la pittura nella scuola di Belle Arti, e Aleksandr lettere all'Università. Gli affari della drogheria andarono sempre peggio, e Pavel Egorovič non fu più in grado di pagare i fornitori; s'indebitò senza poter rimborsare i creditori finché, dichiarato il fallimento, il 3 aprile 1876 si rifugiò a Mosca come clandestino. Per evitare la prigione per debiti, la moglie Evgenja Jakovlevna fu costretta a vendere la casa e il mobilio per saldare i creditori e raggiunse il marito a Mosca con i figli Michail e Marija. Ivan fu accolto da una zia di Taganrog, mentre Anton rimase nella vecchia casa, in quel momento appartenente a un altro proprietario, al nipote del quale egli dava lezioni private in cambio del vitto e dell'alloggio.

Furono anni di miseria, passati nell'attesa di concludere gli studi e di poter raggiungere a Mosca la famiglia, la quale, da parte sua, non se la passava meglio; in cinque in una stanza ammobiliata, vivevano del lavoro saltuario del padre e della confezione di scialli di lana della giovane Marija. A Taganrog, Anton passava molte ore nella modesta biblioteca pubblica, inaugurata recentemente; ai moderni scrittori russi e alla filosofia di Schopenhauer egli aggiungeva la lettura delle riviste umoristiche. Letture affastellate, e tuttavia necessarie alla formazione del futuro scrittore.

Il diploma ginnasiale di Čechov

Un viaggio a Mosca, nella Pasqua del 1877, gli mise sotto gli occhi il decadimento e l'avvilimento della famiglia ma, giovane com'era, a colpirlo maggiormente fu la grandezza e la vivacità della città: «Mi sono recato recentemente al teatro di Taganrog e l'ho paragonato a quello di Mosca. Che enorme differenza! Se riuscirò a terminare gli studi ginnasiali, correrò subito a Mosca. Amo talmente questa città!»[10] Intanto aveva già cominciato a scrivere sperando, ma invano, in una pubblicazione; una sua commedia fu giudicata promettente; sentiva di avere la stoffa dello scrittore ma anche una completa mancanza di esperienza.

Vennero finalmente i giorni degli esami finali per il conseguimento del diploma ginnasiale; il componimento di russo era dedicato alla scottante attualità politica: «Non c'è calamità peggiore dell'anarchia». Anton se la cavò bene in tutte le materie e nel giugno del 1879 poteva mostrare con orgoglio il suo diploma: «Condotta: eccellente; precisione: benissimo; applicazione: benissimo; zelo nei lavori scritti: benissimo».[11]

Si può immaginare con quanta impazienza il giovane Čechov trascorresse le ultime settimane a Taganrog; finalmente, ottenuta una borsa di studio di 25 rubli per frequentare la facoltà di medicina, il 6 agosto 1879 saliva con due amici sul treno che l'avrebbe portato a Mosca: la sua ville lumière, la città delle promesse e del successo.

A Mosca

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Anton Čechov

La sua famiglia viveva allora nello scantinato di un palazzo, in una via malfamata; tre pensionanti portavano un magro sollievo all'economia di quel gruppo di dieci persone che viveva dei trenta rubli mensili del padre operaio e della rara vendita di qualche quadro di Nikolaj, il pittore che, pur non privo di talento, annegava nell'alcol l'amarezza di una vita familiare degradata e la delusione della mancata realizzazione delle sue speranze d'artista. Il contributo della borsa di studio di Anton permise alla famiglia di trasferirsi in un appartamento più decoroso e di mandare a scuola i fratelli minori Ivan, Michail e Marija.

Impegnato nella frequenza universitaria, Anton non si unì mai ai circoli rivoluzionari studenteschi, molto attivi in quel periodo, in cui i populisti credevano di poter rovesciare lo zarismo con una serie di attentati; al riguardo Čechov mantenne sempre un assoluto riserbo. Seguendo i suoi personali interessi e avendo ben presente la necessità di guadagnare, dedicava il tempo solo allo studio e alla scrittura di brevi racconti che inviava alle redazioni delle riviste umoristiche di Mosca; finalmente, dopo diversi rifiuti, il settimanale «La libellula» gli pubblicò nel marzo 1880 La lettera del possidente del Don Stepan Vladimirovič al dotto vicino dottor Fridrich, firmato semplicemente con un'anonima «V.». Una grande torta comparve sulla tavola dei Čechov a festeggiare il felice esordio letterario.

Fu l'inizio di una produzione crescente: la vena comica scorreva facilmente e nel giro di tre anni Čechov pubblicò più di cento racconti e un romanzo, L'inutile vittoria, comparso a puntate ne «La sveglia». Fu scritto imitando lo stile di Mór Jókai, scrittore ungherese allora molto popolare anche in Russia. Continuò a firmare i suoi lavori con vari pseudonimi, spesso con quello di Antoša Čechonté, soprannome datogli dal vecchio professore di ginnasio. Non scriveva soltanto racconti: ne «Lo spettatore» pubblicava anche recensioni teatrali. In una di queste, scritta alla fine del 1881, si permise di criticare la famosa Sarah Bernhardt, che aveva visto recitare La signora dalle camelie e Adriana Lecouvreur al teatro Bol'šoj: «Vi sono momenti in cui, vedendola recitare, ne siamo commossi quasi fino alle lacrime. Le lacrime però non scendono, giacché tutto l'incantesimo è cancellato dall'artificio».[12]

Lo scrittore Nikolaj Lejkin

Quell'anno scrisse anche il suo primo dramma d'impegno, che egli riteneva importante, ma che gli fu rifiutato; allora egli, deluso, l'abbandonò. Dopo la morte il testo fu ritrovato nel 1920 tra le sue carte e dal 1923 fu rappresentato con vari titoli (in Italia si impose quello di Platonov). È un'opera confusa che tuttavia già contiene i temi dei maggiori drammi successivi: la vita di campagna, la noia, l'incapacità di vivere e di avere rapporti umani equilibrati, l'egoismo.

La rivista Oskolki

Nell'ottobre del 1882 Čechov fu avvicinato dallo scrittore Nikolaj Lejkin, direttore di Oskolki (Осколки), una famosa rivista umoristica di San Pietroburgo; Lejkin cercava giovani collaboratori e l'accordo fu subito concluso: avrebbe ricevuto otto copechi per ogni riga dei suoi racconti, che dovevano essere brevi, vivaci, divertenti e non dare problemi con la censura. Čechov avrebbe tenuto anche una regolare rubrica di cronaca, i Frammenti di vita moscovita, e il fratello Nikolaj li avrebbe illustrati. Fu così che su quell'importante rivista a diffusione nazionale il 20 novembre 1882 apparve il suo primo racconto, naturalmente firmato Čechonté.

Il compenso era eccellente, ma l'impegno di scrivere a scadenza racconti umoristici in un numero prefissato di righe era molto oneroso: «È arduo andare a caccia dell'umorismo. Vi sono giorni in cui si va alla ricerca delle facezie e se ne creano alcune di una banalità nauseante. Allora, volente o nolente, si passa nel campo della serietà».[13] Fu così che ogni tanto gli fu permesso di scrivere racconti con un registro serio o malinconico.

Era ormai conosciuto e apprezzato, ma non del tutto soddisfatto della sua professione. In quegli anni Čechov sosteneva di non considerarsi propriamente uno scrittore, ma piuttosto un giornalista, e solo provvisoriamente: «Sono giornalista perché ho scritto molto, ma non morirò giornalista. Se continuerò a scrivere, lo farò da lontano, nascosto in una nicchia […] Mi immergerò nella medicina; è la mia unica possibilità di salvezza, benché non abbia ancora fiducia in me come medico».[14]

Nikolaj Čechov: il giovane Anton Čechov

Sta di fatto che nel 1884 raccolse in un volume le sue novelle migliori e le pubblicò a proprie spese con il titolo Fiabe di Melpomene (Skazki Mel'pomeny), che però, forse anche per il titolo ingannevole, venne ignorato dalla critica. Per il Nostro, la pubblicazione fu un segnale positivo della sua maturazione e della propria affermazione come scrittore: «Ciò che gli scrittori di nobili origini ricevono gratuitamente, per diritti di nascita, gli scrittori plebei lo devono acquistare a prezzo della giovinezza». Il figlio del droghiere si consolò a giugno con il conseguimento della laurea in medicina; quell'estate esercitò la professione nell'ospedale di Čikino, presso Voskresensk, dove il fratello Ivan viveva e insegnava, poi a settembre tornò a esercitare nella casa di famiglia, dove ricavò il suo studio, pur continuando a mandare racconti a San Pietroburgo. A dicembre, per la prima volta, ebbe degli episodi di emottisi: era la tubercolosi, ma Čechov, per il momento, preferì pensare o far credere che si trattasse di altro.

La povertà dell'adolescenza era ormai lontana, e Anton, divenuto di fatto il capo della famiglia, poteva permettersi di mantenerla senza sopportare nessuna privazione personale: «Ho molti amici e di conseguenza molti clienti. Una metà li curo gratis, l'altra metà mi paga cinque o tre rubli a visita. Ovviamente non sono ancora riuscito ad accumulare un capitale e non l'accumulerò tanto presto, ma vivo in maniera piacevole e non mi manca nulla. Se camperò e starò bene, il futuro dei miei è assicurato».[15] In effetti, poteva considerarsi un benestante: abitava in una casa ben ammobiliata, aveva due domestiche e la sera intratteneva gli amici al pianoforte. Nella primavera del 1885 si permise anche il lusso, impensabile fino a un paio d'anni prima, di affittare una villa interamente arredata a Babkino, nella campagna di Mosca, che si stendeva su un amplissimo parco all'inglese, e vi passò quattro mesi con tutta la famiglia. Tornati in città, in autunno un nuovo trasloco portò i Čechov ad abitare nel comodo appartamento di un tranquillo quartiere di Mosca.

La fama letteraria

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L'editore Aleksej Suvorin

Il 10 dicembre 1885 Čechov fu invitato da Lejkin a Pietroburgo, la capitale politica e culturale della Russia; fu ricevuto con gli onori che si riservano agli scrittori di grido e fu presentato ad Aleksej Suvorin, ricchissimo editore, fondatore e direttore del più importante quotidiano russo di quel tempo, «Novoe Vremja» (Новое время, Tempo nuovo), il quale gli propose di collaborare al suo giornale. Suvorin, scrittore di nessun rilievo, già liberale, si era convertito all'autocrazia divenendo il più convinto sostenitore del governo e uno degli uomini più odiati dall'intelligencija liberale e rivoluzionaria russa.

Per un giornalista sarebbe stata già una consacrazione collaborare al miglior giornale di tutta la Russia; la consacrazione letteraria, per quanto non pubblica, gli venne da una lettera inviatagli qualche mese dopo dal grande Dmitrij Grigorovič, scrittore ma soprattutto massima autorità dell'epoca nel campo della critica letteraria: «Avete un talento vero, un vero talento che vi pone molto al di sopra degli scrittori della vostra generazione […] se parlo del vostro talento, lo faccio per convinzione personale. Ho più di sessantacinque anni, ma continuo a provare un tale amore per la letteratura e ne sorveglio i progressi con tale ardore, mi rallegro talmente se scopro qualcosa di nuovo e di ispirato che, come vedete, non posso trattenermi e vi tendo entrambe le mani».

Ivan KramskojDmitrij Grigorovič

Gli dava anche un prezioso consiglio: «Smettete di scrivere troppo in fretta. Non conosco la vostra situazione economica. Se non fosse buona, meglio sarebbe per voi patire la fame, come avvenne a suo tempo nel nostro caso, e tenere in serbo le impressioni per un lavoro maturo, compiuto […] Un'unica opera scritta in tali condizioni avrà un valore mille volte superiore a un centinaio di novelle, anche buone, sparpagliate su diversi giornali».[16]

Naturalmente Čechov rispose subito: «La vostra lettera, mio buono e amatissimo nunzio di gioia, mi ha colpito come il fulmine. Ne ho quasi pianto […] Nei cinque anni che ho trascorso vagabondando da un giornale all'altro sono stato contagiato dai giudizi sull'inconsistenza dei miei scritti e mi sono abituato a considerare il mio lavoro con disdegno […] Questo è un primo motivo. Un secondo è che sono medico, immerso quasi completamente nella medicina. Non rammento un solo racconto su cui abbia lavorato più di un giorno […]». Dopo aver letto la lettera di Grigorovič, Čechov rivelava di avere «bruscamente sentito l'assoluta necessità di uscire dal solco nel quale mi sono impantanato» e concludeva: «Ho soltanto ventisei anni. Forse riuscirò a concludere qualcosa di buono, anche se il tempo corre veloce».[17]

Familiari e amici di Čechov

In estate apparve la sua nuova raccolta, i Racconti variopinti che dai critici, non però da Grigorovič, ebbe un'accoglienza negativa, e fece un nuovo trasloco, questa volta affittando un'intera casa di due piani di via Sadovaja-Kudrinskaja,[18] quasi nel centro di Mosca. Oltre ad accogliere comodamente i famigliari, vi teneva lo studio medico, lo scrittoio e nel salotto riceveva, come sempre, estimatori e amici, tra i quali erano gli scrittori Vladimir Korolenko, Fëdor Popudoglo, Aleksej Sergeenko e Marija Kiselëva con il marito, e il pittore Levitan, che s'innamorò, non ricambiato, di Marija Čechova.

Nel marzo del 1887 Suvorin decise di pubblicargli una nuova raccolta di novelle - intitolata Nel crepuscolo, che ebbe un buon successo di critica e di pubblico - e gli offrì un largo anticipo sui futuri racconti. Čechov ne approfittò subito per realizzare il desiderio al quale da tempo pensava: rivedere la città natale. Ambientato ormai a Mosca e anche a Pietroburgo, Taganrog fu una grave delusione: quella sporcizia e quell'aria di provincia desolata gli furono insopportabili. Si rifece nel viaggio di ritorno, passando per la steppa immensa e malinconica, assaporò nuove sensazioni assistendo per due giorni a Novočerkassk a una festa di cosacchi, o partecipando alla festa religiosa del vicino monastero del Monte Santo. Scrisse a Lejkin: «Ho accumulato una massa d'impressioni e di materiale, non rimpiango di aver perso un mese e mezzo per questo viaggio».[19]

Ivanov

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Fëdor Korš, il proprietario dell'omonimo teatro moscovita, gli aveva chiesto una pièce; dopo mesi di esitazioni, in ottobre Čechov si mise al lavoro e dopo pochi giorni poteva scrivere al fratello Aleksandr: «Ho scritto la pièce senza accorgermene […] mi ha portato via quindici giorni o, più esattamente, dieci giorni […] L'intreccio è complicato ma non sciocco. Termino ogni atto come sono solito fare nelle novelle; tutti gli atti si snodano dolcemente, tranquillamente, ma alla fine colpisco in faccia lo spettatore. Ho concentrato la mia energia su alcuni momenti veramente forti e memorabili; in compenso, i passaggi che uniscono tra loro le varie scene sono insignificanti, fiacchi e banali. Comunque, sono contento; anche se la pièce non fosse buona, ho creato un personaggio che ha valore letterario».[20]

Isaac Levitan: Anton Čechov

Questo personaggio è Ivanov, un proprietario terriero trentacinquenne, intelligente, colto e gentile, che finisce con l'essere invaso da una profonda malinconia: la moglie Anna, senza saperlo, è gravemente malata, la sua proprietà va in rovina, i debiti si accumulano. La giovane Saša, innamorata di lui, cerca di risollevarlo dall'abulia nella quale è sprofondato. Durante un violento litigio, Ivanov rivela alla moglie che ella ha una malattia mortale. Morta Anna, Ivanov accetta di sposare Saša, ma quando il medico L'vov, sfidandolo a duello, lo accusa pubblicamente di viltà e di aver provocato la morte della moglie, Ivanov si uccide.

Ivanov è in realtà un'anima generosa, un intellettuale che aveva creduto nella possibilità del progresso e si era interessato ai problemi degli altri, creando un'azienda modello e scuole per i contadini, ma alla fine sembra essersi reso conto che la Russia non era cambiata, l'oppressione politica e il degrado sociale erano rimasti quelle di sempre ed egli aveva gettato via inutilmente, con le sue sostanze, anche le sue illusioni; di qui la sua depressione e il senso dell'inutilità del vivere.[21]

La prima del dramma non ebbe successo. Già durante le prove Čechov si era convinto che «gli attori non capiscono niente, accumulano sciocchezze su sciocchezze, hanno parti non adatte a loro»,[22] e alla rappresentazione del 19 novembre, durante il quarto atto, alcuni attori recitarono visibilmente ubriachi. Il critico de «Il foglio moscovita» definì l'opera «una sciocchezza insolentemente cinica, immorale e odiosa», quello del «Notiziario di Mosca» rimarcò i «parecchi errori dovuti all'inesperienza e all'ingenuità dell'autore».[23]

Čechov si rifarà poco più di un anno dopo, il 31 gennaio 1889: l'Ivanov, presentato con qualche rimaneggiamento al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo, ottenne un clamoroso successo di critica e di pubblico che si mantenne inalterato nel tempo. Lo scrittore si era già recato a Pietroburgo all'indomani della caduta del suo dramma, come a sollevarsi dalla delusione nei circoli intellettuali della capitale, dove era stato accolto con ogni onore, aveva rivisto gli amici Leont'ev-Ščeglov e Korolenko, e conosciuto autorevoli personalità, come il vecchio poeta Pleščeev e il pittore Il'ja Repin.


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Data inserimento: Martedì, 27 Maggio 2025