Il fumo dell’acciaio
di Sefano Paolocci
Fuori c'è un freddo becco. Con Mario ci siamo dati appuntamento proprio qui, davanti a quelle due borchie in metallo cromato che continuano a guardarci benevole: occhi incastonati nell'imperiosa austerità di questo portone in castagno massiccio.
Strano a dirsi, ma nemmeno una settimana fa l'asparagina e un nastro bianco con su scritto “Oggi Sposi” si divertivano a mettere in dubbio proprio la solennità di questo luogo e della sua porta d'ingresso. Per non dire poi del batter di mani che da dentro si faceva strada: altro che comizi o proclami, a rincorrersi erano solo le rime amorose e quelle oscene.
A qualcuno magari questo suo uso, diciamo così, “alternativo”, non è mai andato a genio: è la sede di un partito, del partito comunista, scherziamo?
Ma chi l'aveva tirata su mattone dopo mattone, aveva assicurato che questa sarebbe stata una casa “del” popolo e “per” il popolo, quindi c'era davvero poco da dire.
Mario invece ha sempre pensato che ad esagerare un pochino siamo stati proprio noi: spostare le sedie e tirar via il tavolo centrale solo per farne un ring, non è che sia esattamente una forma di riguardo.
Eppure io non sono mai stato d'accordo con lui e glielo ho detto: “Senti, mettiamola così: ti ricordi quando tuo padre ti diceva di quella volta che sui muri del paese avevano scritto “E' meglio un somaro bassanellese che un sindaco canepinese”?
O di quel giorno in cui, in pompa magna, il signor Prefetto in carne ed ossa era piombato in comune per fare la ramanzina al sindaco-barbiere a suon di “non mettete un mattone di più”?
Bene, non era uno scazzottarsi anche allora?”
Mario ha prima sorriso, quindi mi ha fatto notare
che i match prima o poi finiscono: suona la campanella dell'ultimo round oppure uno dei due contendenti cade giù e non si tira più dritto.
“Per me non è ancora suonato né l'ultimo round, né sono andato al tappeto. Te invece?” gli ho risposto strizzando l'occhio. Ha allargato le braccia, quasi a dirmi che se c'era necessita di infilarsi i guanti o di non toglierseli più per il resto della vita, lui era pronto.
E sì che gli anni bui della guerra e della fame sembravano ormai un ricordo sbiadito: adesso nessuno poteva più raccontarti l'illusione orrenda che “il lavoro rende liberi”.
Anche questa Casa, questo spazio vuoto colmato col sudore di gente umile e solida come la roccia me lo confermava: alla fine di tutto è sempre più complicato odiarsi che voler stare gli uni accanto agli altri in pace.
Mario finalmente arriva, imbacuccato quasi fosse appena tornato dal Don e affrettato da quel suo passo lungo e sgangherato che lo rende agli occhi della gente innocuo e bonario.
“I guanti?” gli chiedo. Si batte con una mano sotto il pastrano e mi rassicura. “Bravo!” esclamo felice prima di impegnarmi in una battaglia senza quartiere con le tasche del mio cappotto: le chiavi hanno sempre questa particolare facoltà di sparire nell'esatto momento in cui si cercano.
Mario ride e butta gli occhi in alto: “Ma tu lo sai che proprio qui, proprio dove sono io adesso, c'era una fogna a cielo aperto?”.
Muovo la testa avanti e indietro confermando: in casa me ne hanno raccontate talmente tante di storie su questa Casa del Popolo che mi sembra di averla conosciuta da sempre.
Come quella strana e divertentissima sugli altoparlanti dell'Università Agraria e la radio del Duce:
“Tu invece lo sai della colletta di 20 lire?”
“Guarda che non avevano mica cercato soldi per costruirla: solo una raccolta di frutti della terra da rivendere” risponde titubante Mario.
“Macché! Le 20 lire chieste a scuola a tutti gli alunni per ricomprare la radio con cui, durante il ventennio, venivano diffusi i comunicati fascisti ai bassanellesi dalla loggia dell'Università Agraria dico.
Non la sai vero? Raccontano che, caduto il regime, proprio i locali dell'ente agrario fossero stati occupati dai simpatizzanti del PCI e del PSI per riunirsi e, diciamo così, bonificati”.
“Che vuol dire bonificati” mi chiede perplesso. “Bonificati: risanati, puliti, disinfestati” gli dico calcando il tono della voce ed aspettando la sua reazione che infatti, puntuale, arriva come uno dei suoi ganci sinistri.
“Ma non dirmi che hanno preso baracca e burattini e hanno buttato tutto di sotto”.
“E bravo il mio Mario” rispondo fendendo l'aria con una grassa risata.
“E le 20 lire?”
“Ad una maestra venne la brillante idea di chiedere ai suoi alunni di partecipare all'acquisto della radio che avevano rotto i comunisti. Sfortuna volle che fra gli alunni di quella classe ci fosse proprio la figlia di Giacomino: non ti dico il giorno appresso che successe” e stavolta siamo in due ad esplodere in una risata così forte che ad un certo punto, da una finestra vicina, qualcuno ci fa capire senza mezzi termini il suo dissenso.
Da via Polare intanto sale un refolo di vento gelido. Per fortuna, mentre infilo la mano nella tasca in un ultimo disperato tentativo, la chiave decide di apparire quasi a farsi beffa della mia sbadataggine: sono sempre stata qui, chissà cosa mai stavi cercando. La prendo, la guardo in segno di sfida e poi penetro la corteccia del portone di castagno spalancando l'uscio sulla finestra di fronte dove una fila di tetti è impegnata a fumare copiosa la legna dei caminetti.
L'aratro e il Cristo di Francesconi ci accolgono con quel loro strano abbraccio trasversale, una vista che basta da sola a confermare la sacralità di questo luogo: la terra è davvero degli uomini di buona volontà.
“Aspetta, devo dirti una cosa” mi dice prima di entrare Mario. Lo guardo circospetto: magari si è innamorato e
adesso finisce che dovrò fare a pugni con il sacco.
Un manifesto elettorale fa bella mostra di sé e mi ricorda che ogni conquista ha sempre bisogno di qualcuno che la difenda. “A Gennaio vado via, a Taranto, in Italsider” mi dice con gli occhi liquidi.
Passano secondi, minuti, anni, non lo so. “Non dici niente?” balbetta Mario. No, non dico niente.
Sposto le poche sedie al centro mentre il tavolo è già di lato. Ripenso alle sue parole: prima o poi i match finiscono. Forse ha sempre avuto ragione Mario: prima o poi si deve mollare.
“Chissà se il fumo dell'acciaio ha lo stesso colore di quello che sbuffa dai comignoli delle case di fronte” mi domando inebetito guardando fuori. Poi l'aratro mi scuote:
“Metti i guanti Mario, mettili che tanto non finiremo mai di combattere”.
La casa dei diavoli rossi, Archivio, Giulio Francesconi, Stefano Paolocci